Di Simona Guida
Caporalato: un problema sistemico nel settore agricolo italiano
Il fenomeno del caporalato è uno dei problemi più radicati e complessi del settore agricolo italiano, con profonde implicazioni non solo sul piano economico, ma anche sociale e umano. Coinvolge decine di migliaia di lavoratori, molti dei quali sono migranti o richiedenti asilo, costretti a lavorare in condizioni disumane, con salari in nero e nelle migliori condizioni in grigio, senza tutele e spesso sotto la minaccia di violenza o ricatti. Tuttavia, l’impatto devastante del caporalato viene spesso distorto o oscurato dalla disinformazione, che gioca un ruolo chiave nel perpetuare lo sfruttamento e nel ritardare interventi efficaci.
Il fenomeno del caporalato si inserisce perfettamente in una più ampia cornice delle preoccupazioni europee, nello specifico nelle politiche per la diffusione e garanzia dei diritti civili, economici e di giustizia sociale. Le radici di questa problematica potrebbero essere non solo storiche, ma anche frutto dell’attuale geopolitica. Come ben argomentato dal filosofo contemporaneo Slavoj Žižek, le dinamiche di sfruttamento e la “cultura dell’incompatibilità” percepiscono i migranti come “altro”, rafforzando la loro marginalizzazione. Nel caso del caporalato, i lavoratori migranti vengono sfruttati non solo economicamente, ma anche culturalmente, mentre la disinformazione giustifica il loro sfruttamento sulla base di una presunta inevitabilità.
Anche i giuristi italiani Emilio Santoro e Chiara Stoppioni, nella loro analisi, sottolineano come le politiche migratorie e le dinamiche economiche globali contribuiscano a questa vulnerabilità. Nel secondo rapporto sullo sfruttamento lavorativo essi analizzano le condizioni di lavoro e le vulnerabilità dei lavoratori, indicando che il caporalato non è solo un problema di sfruttamento individuale, ma è un fenomeno sistemico, che richiede soluzioni strutturali. Sarebbe fondamentale un percorso sociale strutturato a sostegno delle vittime nella fase di affrancamento e nella ricerca di nuove possibilità lavorative per consente loro di uscire in maniera definitiva dal circuito dell’illegalità.
Marco Omizzolo, esperto sul tema del caporalato, sottolinea che questo fenomeno è radicato in un modello di produzione che si basa sull’illecito e sull’ingiustizia, integrando il lavoro migrante in circuiti di sfruttamento sistematico. Omizzolo evidenzia l’importanza di riconoscere il caporalato come un fenomeno sistemico, legato non solo all’agricoltura, ma anche a dinamiche economiche più ampie, dove il profitto a discapito dei diritti umani diventa la norma Anche egli richiama l’attenzione sulla necessità di una riforma strutturale delle politiche del lavoro, affinché i diritti dei lavoratori siano effettivamente garantiti.
Ma in che modo si produce disinformazione? Innanzitutto attraverso la minimizzazione del fenomeno e la colpevolizzazione dei migranti.
Minimizzazione del fenomeno
Uno degli strumenti più efficaci della disinformazione nell’ambito del caporalato è la sua minimizzazione. Attraverso campagne mediatiche o narrazioni fuorvianti, il caporalato viene rappresentato come un problema marginale, limitato ad alcune aree rurali del Sud Italia, come la Puglia o la Calabria, mentre in realtà è molto più diffuso. Studi e inchieste, come quelle riportate nel VI Rapporto agro mafie e caporalato della FLAI-CGIL, dimostrano che lo sfruttamento dei lavoratori agricoli è presente in molte regioni italiane, inclusi il Nord e il Centro, con epicentri in aree che non ricevono la stessa attenzione mediatica. Questo rapporto mette in luce l’evoluzione del caporalato nelle filiere produttive agroalimentari, in particolare l’appalto e il subappalto illecito come evoluzione dell’intermediazione di manodopera. Presentare il caporalato come un’anomalia locale sminuisce la portata del problema e rallenta l’adozione di soluzioni sistemiche.
Inoltre, la normalizzazione dello sfruttamento viene spesso sostenuta anche da narrazioni che giustificano il caporalato come una necessità del sistema agricolo, soprattutto in un contesto di competizione globale e di pressioni economiche sui piccoli e medi agricoltori. Questo tipo di disinformazione, oltre a inquinare il dibattito pubblico, crea una sorta di accettazione tacita del fenomeno, come se fosse un “male necessario” per mantenere competitiva l’agricoltura italiana, nascondendo il fatto che i veri beneficiari sono le grandi aziende e le filiere agroindustriali.
Un aspetto specifico della minimizzazione attiene alla mancata evidenziazione dei legami tra il caporalato e la criminalità organizzata. Sebbene sia noto che molte reti di caporali operano sotto il controllo o la protezione di organizzazioni mafiose, queste connessioni vengono raramente messe in evidenza nel dibattito pubblico. Spesso, il caporalato viene descritto come un problema circoscritto a singoli individui o a piccoli gruppi locali, ignorando la dimensione sistemica e criminale del fenomeno. In realtà, la mafia trova nel caporalato una fonte di guadagno e controllo territoriale, e l’assenza di una narrazione chiara su questo legame complica ulteriormente le operazioni di contrasto.
La criminalità organizzata non si limita a controllare il mercato del lavoro agricolo attraverso il caporalato, ma spesso è coinvolta anche nella gestione dei trasporti, degli alloggi e della fornitura di beni essenziali ai lavoratori, creando un sistema chiuso da cui è difficile uscire. Questa realtà viene però spesso sottovalutata, riducendo il caporalato a una questione esclusivamente economica, mentre la sua dimensione criminale e sistemica viene offuscata.
Colpevolizzazione delle vittime
Un altro pilastro della disinformazione attorno al caporalato riguarda la vittimizzazione e la colpevolizzazione dei lavoratori migranti. Si diffonde spesso l’idea che questi ultimi accettino volontariamente condizioni di lavoro inumane per un guadagno immediato, trascurando il fatto che sono spesso vittime di una situazione di estrema vulnerabilità. I migranti, privi di alternative e di reti di supporto, sono facilmente preda dei caporali, che sfruttano il loro bisogno di sopravvivenza per imporre orari massacranti, salari indecenti e condizioni abitative fatiscenti.
La colpevolizzazione delle vittime è parte di un sistema che perpetua le disuguaglianze e alimenta un sentimento di paura nei confronti dei migranti. Critica apertamente la narrazione per cui queste persone “scelgono” di lavorare in condizioni disumane per un guadagno immediato, nascondendo le vere cause sistemiche che costringono i migranti a essere parte di un circuito di sfruttamento.
Questa narrazione distorta, oltre a alimentare sentimenti xenofobi nella società italiana, contribuisce a distogliere l’attenzione dai veri responsabili del caporalato: i caporali e le aziende che beneficiano del lavoro a basso costo. Si crea una falsa equivalenza tra vittime e carnefici, rafforzando stereotipi negativi sui migranti e legittimando, in un certo senso, lo sfruttamento. Inoltre, la disinformazione spesso nasconde il fatto che molti di questi lavoratori sono privi di documenti o in attesa di regolarizzazione, rendendoli ancora più ricattabili e invisibili agli occhi della giustizia.
Il ruolo dei media e della politica
La disinformazione sul caporalato trova terreno fertile anche nel modo in cui i media e la politica affrontano il tema. In molti casi, i media tendono a trattare il caporalato solo in occasione di grandi scandali o operazioni di polizia, creando l’illusione che si tratti di un fenomeno eccezionale, anziché quotidiano. Questo tipo di copertura frammentata e sensazionalistica non permette di comprendere le radici profonde del problema né di creare una consapevolezza diffusa sulla necessità di riforme strutturali. Inoltre, alcuni settori della politica utilizzano il tema del caporalato in modo strumentale, per attaccare le politiche migratorie o per alimentare la retorica del “prima gli italiani”, distorcendo la natura globale e complessa del fenomeno.
Al contrario, i pochi sforzi di sensibilizzazione e informazione spesso faticano a raggiungere il grande pubblico, limitandosi a circoli ristretti di esperti o attivisti. Anche quando si cerca di denunciare il caporalato, la narrativa della disinformazione tende a prevalere, con un’attenzione limitata alle cause strutturali e alle responsabilità politiche.
L’importanza della consapevolezza e delle soluzioni
Contrastare la disinformazione è il primo passo per affrontare in modo efficace il fenomeno del caporalato. Senza una corretta informazione, l’opinione pubblica non ha gli strumenti necessari per comprendere la portata del problema e le sue implicazioni. È fondamentale che i media, le istituzioni e la società civile collaborino per diffondere una narrativa chiara e basata su dati concreti, che metta in luce le responsabilità del sistema e che dia voce alle vittime, anziché colpevolizzarle.
Promuovere le buone pratiche che hanno buona informazione, come ad esempio la rete italiana del lavoro agricolo di qualità, o la produzione di alcuni prodotti privi di sfruttamento lavorativo presso la cittadinanza attiva come i Gruppi di Acquisto Solidale e le comunità di consumatori private come le mense alimentari. (A titolo di esempio: Salsa di pomodoro Sfruttazero, progetto dell’associazione Dirittialsud, prodotti a certificazione etica NOCAP, prodotti alimentari Cruelty free, ecc…)
Occorre inoltre un impegno costante per far emergere la complessità del fenomeno, che non può essere ridotto a una semplice questione di illegalità o di devianza individuale. Il caporalato è il prodotto di dinamiche economiche, sociali e politiche che vanno affrontate in modo sistemico, attraverso politiche del lavoro che tutelino realmente i diritti dei lavoratori e una riforma europea delle filiere agroindustriali che ponga fine allo sfruttamento.
Il contrasto al caporalato, quindi, non è solo una questione di giustizia sociale, ma anche di trasparenza e responsabilità. Smascherare la disinformazione su questo tema significa permettere alla società di riconoscere la realtà dello sfruttamento e di impegnarsi attivamente nella ricerca di soluzioni.
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